La prima volta che ho incontrato Enrico d’Abbene è stata nell’autunno del 1979. Ero appena stato nominato preside della scuola media Marconi di Alpignano, il mio primo incarico in quel ruolo e tutta la mia breve carriera l’avrei svolta lì, quando un sabato mattina si presentò con la discrezione ed il garbo che lo contraddistringuono chiedendomi l’autorizzazione a usare la palestra della scuola per fare un cosrso di judo. In quanto responsabile di una struttura pubblica destinata alla formazione dei ragazzi, a quella richiesta non potevo che dare risposta affermativa. La questione mi sembrava che esulasse dalla mia discrezione: lo spazio era adeguato allo svolgimento dell’attività, la scuola di pomeriggio era chiusa, l’attività sportiva non soltanto ha valore per lo sviluppo fisico degli adolescenti, ma anche per la formazione del carattere e per una positiva socializzazione. Potevo interpretare correttamente il mio ruolo se non proponendo al Cosiglio d’Istituto di aderire alla richiesta, di favorire la realizzazione dell’iniziativa, di predisporre insieme al Comune di Alpignano quel minimo di misure organizzative necessarie al suo svolgimento? Così del resto, mi comportai con tutti i gruppi sportivi e le associazioni che chiedevano di utilizzare i locali della scuola per le loro attività rivolte ai ragazzi e adulti.
E fino a qui non ci sarebbe nulla di particolarmente rilevante da ricordare, è il corso delle cose che trasformò di anno in anno un fatto normale in un evento eccezionale. Per la qualità innanzitutto. La cintura nera Enrico d’Abbene non era soltanto un ottimo judoka, ma un educatore ed un organizzatore di capacità straordinarie. Nel suo insegnamento la conquista di una disciplina interiore prevaleva sull’acquisizione delle tecniche e proprio questo rendeva l’acquisizione delle tecniche più stabile e più efficace. Insomma, il piccolo gruppo di ragazzi che iniziarono con lui quell’avventura imparavano bene perché non si limitavano ad apprendere dei movimenti, ma attraverso quei movimenti si proponevano di rendere migliori se stessi: più rigorosi verso di sé, più rispettosi delle regole, più collaborativi con gli altri. E nel contempo acquisivano quella maggior sicurezza nei rapporti umani, che deriva da una maggior capacità di affrontare una situazione difficile e pericolosa, come ne possono, purtroppo, capitare nella vita.
Non c’era spazio su quei tatami per spacconcelli in cerca di acquisire una maggiore capacità di fare i prepotenti con gli altri, né per superficiali ed incostanti. Il passaggio di cintura aveva il valore di un rito con cui il Maestro e insieme a lui il gruppo, riconoscevano, a chi se lo fosse meritato per serietà d’impiego e rigore di comportamento, l’accesso a un livello più elevato, a un cerchio in cui era stato ammesso prima di lio che aveva già superato uno stadio inferiore
Per la durata in secondo luogo. Quell’attività basata sul volontariato, non lo si dimentichi, non era un fuoco di paglia, non era l’entusiasmo di una stagione (posso non ricordare il ruolo organizzativo dal papà di Enrico fino a quando non si sono chiusi per sempre i suoi occhi?
Tre allenamenti ogni settimana, monta e smonta le materassine, pulisci la palestra, spiega ai nuovi iscritti cose già spiegate centinaia di volte; ricomincia sempre da capo e nel contempo vai avanti; il numero delle cinture sempre più scure che cresce di anno in anno, finalmente crescono anche le cinture nere: una seconda, una terza e poi una progressione crescente; prepare gli incontri a livello provinciale, l’allenamento di chi ha raggiunto livelli nazionali. E mentre fai questo insegna i primi rudimenti al nuovo bambino che a malapena sa indossare da solo il kimono.
Per l’impegno sociale in terzo luogo. Salti una volta il saggio di fine anno, cambi lavoro e diradi i contatti, ma Enrico d’Abbene non dimentica e ti rintraccia e ti ricorda il giorno prima delle vacanze di Natale e prima delle vacanze estive in cui tutto il gruppo degli iscritti manifesterà pubblicamente il livello di preparazione raggiunto. Così quando torni dopo aver perso un giro, trovi che il numero degli iscritti si è arricchito di un gruppo di portatori di handicap che la prima volta con movimenti impacciati e più lenti fanno gli stessi gesti elementari degli altri, la seconda, sei mesi dopo, sono più sciolti, la terza si divertono ad avvinghiarsi e rotolarsi e non vorrebbero smettere anche con il fiatone. Nel frattempo non c’è più spazio per tutti e si devono fare i turni e le fasce d’età sono più varigate e il numero delle ragazzine, delle ragazze e delle donne cresce.
È ormai un luogo comune che l’Italia si regge sul volontariato e non è mai bene ripetere i luoghi comuni. Meglio pensare con la propria testa. Però guardando questa realtà così viva, la durata della vita, la sua capacità d’aggregazione, l’armonia che avverti ogni volta che li vedi all’opera, non puoi fare a meno di constatare che l’idea che te ne fai coincide con un luogo comune, allora non ti resta che ripeterlo, anche se ti dà fastidio. Ce ne fossero tanti di gruppi che lavorano in questo modo, ce ne fossero tanti di animatori in grado di mantenere così a lungo il loro entusiasmo e di comunicarlo a coloro che ci circondano, ce ne fossero tanti di leader che fanno crescere attorno a sé altri leader per dare continuità al loro lavoro, il nostro paese, bisogna proprio ammetterlo, funzionerebbe meglio e tutti coloro che si mettono d’impegno a guastarlo troverebbero qualche difficoltà in più.
Devo aggiungere che, dal primo incontro, la mia stima per il Judo Alpignano, per Enrico d’Abbene e per tutti coloro che sono della partita, è cresciuta e con la stima è cresciuto l’affetto. Forse questo non è importante, ma è certo importante che in questi anni siano cresciuti la stima e l’affetto dei cittadini di Alpignano per questi concittadini di cui possono essere orgogliosi.